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auto mutuo aiuto, un modo per comprendersi

Interventi per sopravvivere alla perdita di un figlio

L’associazione nell’ambito delle sue iniziative si propone di formare un gruppo di auto mutuo aiuto, dove persone che hanno perso un figlio o un loro caro possano, con l’aiuto di sentimenti come la condivisione e l’accoglienza, tenersi per mano e iniziare un cammino verso la speranza di alleviare il dolore del lutto. Ogni intervento deve avere l’obiettivo di PREVENIRE per assicurare che non si ripeta più. Ma considerato che in Italia e in tutto il mondo le tragedie della perdita delle persone sulla strada, sul lavoro e in altri luoghi, avvengono ogni giorno e lasciano, oltre alla perdita delle vite, le rispettive famiglie in una situazione perenne di dolore, occorre costituire gruppi di aiuto con componenti che parlino la stessa “lingua” in modo che si possa dare la prospettiva di ricostruirsi un altro modo di vivere, che sicuramente non sarà quello precedente alla perdita del proprio caro.
Ci proponiamo di attivare il gruppo all’inizio della primavera 2009 nella zona del tradatese. Comunicheremo sul sito  le date e il luogo esatto di ritrovo appena l’organizzazione sarà definita.
Per eventuali informazioni scrivere a Ernesto Restelli: mail ciaomicky.81@gmail.com –  cellulare 3343942017

La partecipazione è gratuita

L’ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME PER UNA STRADA CHE NON C’E’, nata dal dolore di genitori provati dalla perdita di un figlio , nell’ambito delle varie iniziative
INVITA
quanti interessati a partecipare agli incontri che si terranno i giorni:
  • 08 maggio 2009 ;
  • 22 maggio 2009;
  • 05 giugno 2009
alle ore 21
Presso l’oratorio maschile di LONATE CEPPINO
(p.zza DIAZ, sala nell’edificio a lato della chiesa)
Scopo di questi incontri è costituire un gruppo di AUTOMUTUOAIUTO (AMA)
Il gruppo sarà il luogo dove persone che hanno perso un figlio o un loro caro, a prescindere dalla causa di morte, possono ritrovarsi per:
Non essere soli
Scambiarsi emozioni
Confrontarsi
Offrire ascolto
Offrire la propria esperienza
In una parola,  CONDIVIDERE
Ci aiuterà il dottor ENRICO CAZZANIGA Psicologo e Psicoterapeuta, docente del Centro Milanese di Terapia della famiglia e del Centro Panta Rei di Milano. Ha attivato Gruppi AMA per persone in lutto a Monza, Milano e Rho e in molte altre città.
per continuare clicca sulla scritta sottostante edit this enter

 Perdere un figlio o una persona cara

Il dolore di perdere un figlio/a é incomparabile. La morte di un giovane figlio è la morte dell’innocenza. Una parte del genitore muore quando il figlio muore, forse perché il futuro, con tutti i sogni e le speranze, va in frantumi.Le famiglie sviluppano speciali relazioni al loro interno e di primaria importanza é quella genitore-figlio. Nelle famiglie sane c’è la consapevolezza che l’unità familiare, in quanto tale, si spezzerà col tempo: i bambini cresceranno ed andranno via, i genitori invecchieranno e moriranno. In una situazione ideale, i membri della famiglia si rendono conto che tutte le relazioni sono temporanee. In situazioni meno ideali i genitori possono non avere il giusto rapporto con i loro propri genitori ed avere difficoltà a permettere che i genitori, il coniuge o i figli si allontanino.12

Nelle famiglie seriamente disturbate i genitori hanno una bassa autostima e temono prove e pericoli. Essi letteralmente si avvinghiano l’uno all’altro, cercando di rassicurarsi con il dirsi che tutti all’interno della famiglia si somigliano. Essi proteggono se stessi da un mondo esterno che é visto come minaccioso.

L’improvvisa, imprevista morte di un figlio, per ogni famiglia, é un evento devastante. Non c’è tempo per prepararsi alla tragica perdita. I genitori si aspettano che i loro figli vivano a lungo, che gli sopravvivano. “La nostra famiglia non ha fatto nulla per meritare ciò” si sente dire quando dei genitori devono fronteggiare la morte di un figlio. Le madri dicono: “Se solo potessi averlo aiutato”, “Se potessi tenerla con me una sola volta ancora”, “Se solo potessi dirle ti amo una sola volta ancora”.

Il ruolo dei genitori é di proteggere i loro figli; auto-biasimo, senso di colpa e di fallimento possono tormentare i genitori. Essi razionalmente sanno di non essere responsabili del1a morte del loro caro e, tuttavia, dietro le lacrime spessissimo si trovano le parole: “scusami, scusami, scusami…” Tanto é intenso lo shock di perdere un figlio.

La fase del negare 1’accaduto é di solito lunga perché la mente semplicemente non può fronteggiare la piena realtà di ciò che é accaduto. Sentirsi dire che il figlio é morto é una cosa; accettare il fatto che il figlio è realmente morto può richiedere un tempo assai più lungo.

Più e più volte il genitore verrà sorpreso a negare la realtà di quella morte. “Continuai ad aspettare che telefonasse” diceva una madre. Occorrono talvolta settimane o mesi prima che il genitore possa materialmente pronunciare la parola “morto”. Molti genitori descrivono un dolore nel petto come sintomo della loro angoscia e della loro sofferenza in questo periodo.

Il dolore dei genitori é fatalmente solitario a causa del prolungato periodo di rifiuto della realtà. Dal momento in cui il genitore é in grado di rendersi conto pienamente che il figlio é morto – per mai più tornare – la maggior parte dei familiari ed amici ne ha già accettatola scomparsa. Poichéil genitore comincia a provare intensa rabbia e tremenda depressione, gli altri lo evitano dato che fronteggiare questi sentimenti significa rinnovare la propria sofferenza. Essi possono accusare il genitore di non saper fronteggiare la situazione né di accettare la realtà.

Poiché nessuno sembra sapere come aiutarli e poiché la pena dei genitori mette tutti a disagio, i genitori imparano che se nascondono i loro veri sentimenti e stati d’animo saranno meglio accettati.

Si può considerare la perdita di un figlio,quindi, come la sfida esistenziale più difficile, quella per la quale non si ha un riferimento precedente nella storia personale che ci consenta di aiutarci per superarla da soli.13

Tutti i parenti in lutto chiedono quale significato sia rimasto nella vita e molti hanno paura del vuoto esistenziale percepito subito dopo.

L’irrompere dell’imprevisto costringe a cambiare il registro della vita dei genitori. Di fronte alla morte di un figlio, l’uomo e la donna devono affrontare la negazione della prospettiva di un rapporto unico al mondo. Ciò che prima sapevano teoricamente ( tutti muoiono) ora diviene esperienza diretta di dolore, nella propria carne, nella propria coscienza, in quella del coniuge.

Il genitore avverte tutta l’impotenza del proprio amore e quasi l’insignificanza dell’aver dato la vita, dell’essersi dato cura giorno per giorno, momento per momento di quel tu che è divenuto intimo a se stessi tanto da non potersi ormai definire indipendentemente.

La perdita lascia sgomenti e vuoti, privi di parole, perché non ne esistono di giuste davanti alla madre che piange il figlio morto.

Per non soccombere alla perdita lacerante è opportuno pensare che tutta la vita, dal suo inizio alla fine, è segnata da una perdita.

La morte di un figlio è un evento fuori dall’ordinario, che non può essere previsto e prevedibile, ma che non dovrebbe essere escluso dal progetto di vita.14

Quando è improvviso, il colpo può tramortire. I primi momenti sono terribili e vivere in quelle condizioni può apparire impossibile.

Il mondo sembra crollare; quella creatura amata, che ha comportato fatiche ed ansie per entrambi i genitori, al momento in cui viene a mancare occupa immediatamente il cuore e la mente degli stessi, sino a metterne in crisi l’equilibrio.

Essi rifiutano con tutta l’anima l’idea che quel figlio, così fragile ed insieme così potente da portare il sorriso e riempire una casa, quel ragazzetto incredibilmente capace di affrontare la vita come un piccolo uomo, quella bimba dolce e volitiva, quell’adolescente inquieto e già determinato a svolgere la sua parte nel mondo, quel giovanotto pieno di promesse possano scomparire nel nulla e portarsi nella tomba la vita dei genitori.

Far fronte alla morte di un figlio è indubbiamente molto più difficile che fronteggiare una perdita di qualunque altro membro della famiglia, da un lato perché genitori e figli condividono un intenso legame emozionale, dall’altro perché la morte infrange le speranze che i genitori hanno riguardo l’immortalità dei propri figli.

Tuttavia molti genitori colpiti dal lutto riportano cambiamenti positivi specialmente nella vita di coppia ed in generale nella relazione familiare.

Nei genitori che hanno perso un figlio questa esperienza aumenta la compassione e la comprensione verso coloro che hanno condiviso una simile perdita, la vita viene molto più apprezzata ed essi riconoscono l’importanza di trascorrere del tempo con la famiglia e il valore di amare qualcuno.

Molti genitori riportano un miglioramento nella vita matrimoniale e familiare negli anni seguenti la morte del proprio figlio: alcuni vedono aumentata la soddisfazione matrimoniale, sono più vicini al partner e più vicini agli altri figli.

Le famiglie in lutto sono anche più abili a risolvere meglio i conflitti e a parlare gli uni con gli altri riguardo i problemi emozionali.

Tuttavia, in alcune coppie la morte di un figlio contribuisce al divorzio, anche se questa conseguenza spesso deriva da un rapporto matrimoniale di per sé già compromesso.

Indubbiamente, però, un grave lutto porta i genitori ad essere meglio preparati a sostenere futuri problemi di salute, fa si che la famiglia assuma la priorità rispetto al lavoro e ad altre attività della vita, sviluppa un maggiore apprezzamento per le piccole cose quotidiane e dimostra una maggiore abilità nell’empatizzare con i problemi degli altri.15

Quando un figlio muore una parte significativa della vita dei genitori muore con il figlio e questo processo può avere implicazioni negative per il singolo e per la famiglia; ma la maggior parte dei genitori, sebbene profondamente colpiti dalla perdita, deve comunque trovare un modo per riprendere in maniera produttiva la loro vita.

L’importanza e il significato del ruolo genitoriale e del legame tra genitori e figli può subire molti cambiamenti nel tempo, cambiamenti che non terminano con lo sviluppo dei figli e che, per quanto paradossale possa sembrare, non terminano neanche con la morte del figlio.

Il lutto familiare è conosciuto come la maggiore crisi e la perdita che i genitori subiscono è particolarmente profonda e significativa.

Il legame di attaccamento fra genitori e figli è il risultato di un processo biologico, evolutivo e psicologico le cui forze operano per assicurare che i figli verranno al mondo e saranno curati.

Per sopravvivere l’essere umano deve guardare a sé e a tutte quelle cose che egli ritiene essere degne di protezione.

Quando la sopravvivenza di una cosa è percepita come vitale per la sopravvivenza di sé, può essere messo in atto un atteggiamento altruistico che senza difficoltà consente di raggiungere i propri scopi.

Il legame matrimoniale è un tipo di relazione in cui il sé e l’altro si combinano nel tutto; all’interno di questo tutto si aggiunge la presenza dei figli come completamento del rapporto di coppia.

I genitori investono risorse emozionali, finanziarie e fisiche per il bene dei propri figli e questo non è altro che un dono.

L’abilità dei genitori nello stabilire un’unica e magnifica relazione d’amore con ciascuno dei propri figli è un’importante dimostrazione dell’attaccamento umano.

Il numero di figli non è il principale elemento a dimostrazione dell’amore e dell’attenzione che i figli avranno all’interno della famiglia, piuttosto è il bagaglio di risorse emozionali che sottolinea questo elemento.

Quando un figlio muore questi elementi vengono meno e si precipita in una forte crisi che è devastante per i genitori.16

Il tipo di relazione con la persona deceduta sarà un fattore molto importante per lo svolgersi del dolore.

Il dolore può avere un corso molto lungo e rimanere con i genitori per tutto il resto della loro vita tant’è che essi spesso sono portati a far presente cosa avrebbe fatto o cosa sarebbe stato il loro figlio, anche a diversi anni di distanza dalla sua morte.

Indubbiamente, poi, il dolore varia con l’età del figlio e l’età dei genitori: nel caso di lutto di un figlio molto piccolo il dolore sarà molto intenso, considerando il fatto che viene meno una vita che era stata appena donata e, oltretutto, il dolore sarà più intenso per i genitori che perdono il loro unico figlio rispetto a coloro che hanno più figli.

I padri, poi, manifestano il dolore in maniera più silenziosa e composta rispetto alle madri perché la madre viene spesso considerata la figura più importante nei primi anni di vita del bambino.

I genitori che perdono un figlio si sentono differenti dalle persone normali e il loro allontanamento dalla vita di tutti i giorni può creare degli ostacoli a coloro che cercano di comprendere il loro lutto e vorrebbero operarsi per dare loro conforto.

Spesso però questa intenzione di dare appoggio viene male interpretata dai genitori che dimostrano insofferenza per i luoghi comuni come “Il tempo guarisce le ferite” “Può essere di conforto avere la famiglia intorno a te” e di conseguenza questi genitori ritengono tutte queste persone incapaci di comprendere il loro senso di solitudine e di completa disperazione.

Indubbiamente la morte di un figlio risulta essere inconcepibile all’interno di una società così sviluppata da un punto di vista tecnologico, tanto da far quasi sentire l’uomo immune da essa.

Si è ormai sviluppata una fiducia indiscussa nei confronti della scienza medica, arrivando a credere che essa possa trovare una soluzione indolore a qualunque tipo di problema.

I genitori che perdono un figlio si trovano all’improvviso catapultati dentro ad una cruda realtà: i figli possono morire e il dolore che ne deriva dipende soprattutto dal fatto che questa perdita è fondamentalmente una “perdita dell’innocenza”.

Questi genitori non sentono solo la perdita del loro figlio, ma anche la perdita della fiducia nel mondo e nelle sue tecnologie; questo tragico modo di vedere le cose è anche accentuato dal fatto che la perdita di un figlio viene comunque giudicata anormale.

Ovviamente la perdita di un figlio comporta uno sconcertante senso di solitudine per i genitori, che tutto possono accettare fuorché l’idea di sopravvivere ai propri figli.

Tra l’altro molti percepiscono il rifiuto da parte di molte persone a riconoscere la loro drammatica situazione; molti genitori in lutto infatti sentono la pressione da parte di amici e conoscenti affinché si comportino nel modo più normale possibile e non perdano il controllo delle loro emozioni.

La morte di un figlio comporta un senso di perdita unico nel suo genere.

Il senso di indebolimento che ha da sempre accompagnato la morte di un figlio, lo stato di devastazione psicologica, la poca esperienza di altri lutti familiari, la mancanza di un supporto sociale adeguato combinati tutti insieme possono lasciare i genitori soli, nel momento in cui si trovano faccia a faccia con la perdita di un figlio.

Il senso di solitudine può essere doppio: la mancanza di supporto all’esterno della famiglia può amplificare ed aumentare l’incapacità all’interno della famiglia di parlare in merito ai sentimenti ed ai significati della perdita.

Qualora questi discorsi dovessero essere affrontati, non farebbero altro che confermare la percezione che ogni membro della famiglia è solo, con il suo incomparabile dolore.

La morte di un figlio può inoltre destabilizzare l’intera famiglia.

Alcune famiglie piuttosto che lottare con il proprio dolore, si fanno da esso lacerare.

A seguito di questa esperienza perdono qualunque cosa desse significato alla loro vita; sembrano non essere in grado ne’ di guardare indietro ai ricordi con il proprio figlio, ne’ di andare avanti nelle relazione sociali: appaiono come immobili.

Inizialmente sembrano chiedere l’aiuto esterno per superare questo grande dolore, ma successivamente rifiutano qualunque tipo di supporto che possa alleviarlo.

In ogni caso, l’intensità del loro dolore può apparire ossessiva e il loro senso di reclusione diventa una caratteristica che definisce il loro modo di trattare con la perdita.

Soprattutto nei primi mesi dalla scomparsa, un ruolo importante è giocato da quelle che erano le abitudini del figlio che occupano ancora un posto importante nei pensieri della madre e per i genitori in questa condizione rimane un legame forte con gli spazi, ormai vuoti, che il figlio prima occupava (a tavola, nel letto…); quindi, tenere uniti i suoi effetti personali diventa incredibilmente prezioso e in questo modo essi possono arrivare a diventare sostituti del figlio anche per diversi anni.17

Nel caso opposto si trovano invece quelle famiglie che, nonostante il lutto, rimangono attive, si attaccano alla normale routine e danno enfasi agli aspetti non luttuosi della loro identità, cercando di condurre la medesima vita che conducevano prima della morte del figlio.

Quindi, partendo dal presupposto che il lavoro deve essere svolto e che la vita va comunque avanti, essi ritornano quasi immediatamente allo stile di vita usuale.

Questa fuga dal dolore a lungo andare comporterà necessariamente problemi psicologici anche se, comunque, risulta essere un normale meccanismo di difesa che però può offrire solo un breve sollievo.

Inoltre queste famiglie cercano canali di sfogo anche mantenendo i legami con membri della rete sociale esterna alla famiglia, dando l’idea di aver superato la devastazione del lutto, dando loro un apparente stato di normalità.18

Altre famiglie sviluppano, invece, relazioni con altri soggetti che hanno provato la medesima perdita e sono perciò in grado di comprendere i loro sentimenti e aiutarli a risollevarsi.La possibilità di essere capiti, di condividere la stessa esperienza permette di riflettere su cosa è andato perso veramente e consente di iniziare i lavori per la costruzione di una nuova identità.

Queste relazioni consentono di parlare apertamente del proprio figlio deceduto, piangere liberamente la sua morte, condividere sogni ed incubi e rappresentano indubbiamente uno degli strumenti più idonei per risollevare le sorti della famiglia.19

Altre famiglie ancora, infine, sono caratterizzate dal fatto che la sofferenza le ha costrette a ripianificare e rimpadronirsi di molti aspetti della propria vita.

Non ci sono credenze culturali, supporti di altri genitori in lutto che possano dare una spiegazione a ciò che è accaduto e nemmeno le relazioni sociali possono dare conforto ad una serenità ormai danneggiata.

La sopravvivenza personale ed il rifiuto di arrendersi alla disperazione convoglia in un esame del proprio dolore e nel desiderio di mantenere vive le relazioni familiari.

Guardando indietro vedono la loro famiglia e la loro vita illuminata da una nuova luce; inevitabilmente per alcuni si rende necessario rinegoziare il legame con gli altri membri della famiglia, per altri questo triste evento porta ad una nuova vita, nuove priorità ed un sempre maggiore senso di indipendenza personale, sebbene i legami con il passato non vengano dimenticati.

La loro sofferenza è sempre immensa, ma proprio questa situazione comporta un’esplorazione del significato della morte e di conseguenza si ha una rivisitazione del significato della vita.20

Sono sempre alla ricerca di un luogo all’interno della propria mente in cui il figlio è andato.

Le domande sulla morte si fanno frequenti, cosa essa significhi e come sia possibile proseguire la propria esistenza e allo stesso tempo temono per la morte di un altro membro stretto.

Inoltre, molti aggiungeranno al dolore anche un grande senso di colpa, sapendo che potrebbero lasciare soli e trascurare i figli o il partner.

Alcuni genitori sono emotivamente e socialmente paralizzati dal dolore, altri si buttano a capofitto nel lavoro, nascondendo le proprie emozioni, per supportare il resto della famiglia e facendo il possibile per tenerla unita.

In generale, però, ogni membro può reagire i maniera differente dagli altri, aggiungendo al proprio senso di isolamento personale, l’idea che nulla sarà più come prima.

morte di un figlio piccolo

Spesso si dice che quando muore un genitore, una persona perde il suo passato.

Quando muore un figlio, una persona perde il proprio futuro.

Il bambino é strettamente legato al genitore da cui dipende totalmente: quando non c’è più rimane un vuoto.

I genitori desiderano ardentemente sentire il bambino accanto a loro e anche dopo la sua morte essi possono continuare a svegliarsi per sentire se il bambino piange e sono convinti di vederlo e sentirlo. Molti avranno bisogno di tenere i suoi abiti o la sua stanza intatta per un certo periodo; successivamente quando riusciranno a mettere via le sue cose, la morte per loro diventerà reale. Talvolta, pur avendo l’opportunità di spostarsi altrove o cambiare casa, non riescono in questa impresa per timore di perdere totalmente il bambino perchè alcuni sentono che se il bimbo dovesse “tornare a casa” essi devono essere lì per accoglierlo.

Dunque la perdita di un figlio per i genitori è la più difficile in assoluto da affrontare e l’età del figlio gioca sicuramente un ruolo importante soprattutto per quanto concerne la possibilità di recupero del lutto.

Queste perdite sono state definite “solitarie” perché spesso la madre deve sopportare da sola il dolore per la morte del figlio.

Spesso i genitori in questo caso devono dire addio al proprio figlio prima ancora di avergli detto ciao.21

Le madri spesso sopportano il peso del dolore da sole e talvolta mancano adeguati supporti per consentire loro di superare questo drammatico momento che è tale perché la morte di un figlio molto piccolo implica il fatto che non ci siano storie, memorie che lo riguardano, anche le fotografie sono molto poche.

Per i genitori queste poche cose sono custodite come un tesoro; ma per cercare di superare in modo positivo il lutto hanno pochi effetti personali e scarne basi su cui fondare i propri ricordi, quindi poche basi per operare sul lutto e cercare di risolverlo.

Il dolore derivante da questa perdita tende a perdurare per anni e ad intensificarsi sempre più con il passare del tempo e gli effetti possono essere devastanti per la salute dei genitori e per il matrimonio stesso, tanto che la relazione matrimoniale risulta essere particolarmente vulnerabile dopo la morte di un figlio.

Inoltre, l’inopportunità e l’ingiustizia nella morte di un figlio possono condurre i membri della famiglia ai più profondi interrogativi in merito al significato della vita.

Particolarmente difficile da affrontare può essere la morte del primogenito, dell’unico figlio, dell’unico maschio o dell’unica femmina, o la morte di un bambino in un incidente per il quale gli stessi genitori si sentono responsabili.

Poiché poi i bambini molto piccoli sono così completamente dipendenti dai genitori riguardo la loro sicurezza e la loro sopravvivenza, il loro dolore tende ad essere molto forte specialmente nelle cause di morti accidentali o ambigue, come ad esempio la SIDS ( sudden infant death sindrome) e spesso in questi casi la colpa ricade sempre sulla madre che ricopre il ruolo di prima responsabile della salute del figlio.22

Le madri che perdono un figlio molto piccolo hanno bisogno di un grande supporto familiare, ma spesso si pensa che per gli altri membri la situazione non sia così drammatica e questo spinge a pensare che il loro dolore sia meno significante.

Solitamente ci si riferisce alla figura paterna che, soprattutto in caso di morte di un figlio nei primi mesi di vita, ha sviluppato con lui una relazione molto debole, mancandogli l’esperienza della gestazione, per cui se il padre non ha avuto grossi legami con il figlio durante la gravidanza, per lui la sofferenza è meno acuta e comunque fatica a comprendere la tragica esperienza della propria moglie.

Dal momento che ora anche i padri possono sentire i movimenti del figlio e prendere parte al piano per il suo futuro è possibile per loro sviluppare un legame con il figlio non ancora nato.

Gli sviluppi nella tecnologia medica che consentono al padre di ascoltare il battito cardiaco ed osservare il profilo del proprio figlio ancora nell’utero materno permettono di sviluppare un maggiore senso di paternità.

Comunque le aspettative che si hanno sui padri come supporto per le mogli tendono ad inibirli dall’esprimere la loro angoscia ed è molto poco probabile che essi siano percepiti come essi stessi bisognosi di aiuto.

A seguito della morte di un figlio molto piccolo, le emozioni dei padri sono molto confuse poiché essi si trovano all’interno di una situazione che li vede costretti a reprimere i loro sentimenti allo scopo di supportarela moglie. Ipadri, infatti, sono i migliori aiutanti per le donne colpite da un lutto così grave.

Altre madri lamentano l’imbarazzo dei mariti alla loro incapacità di superare la condizione del lutto.

Sebbene le madri sappiano quanto il marito si senta sconvolto, egli sembra incapace di parlare con lei in merito all’accaduto e spesso cerca di evitare che lei ne parli con altre persone.

Questo dipende da intensi sensi di colpa e ricerca di cause in merito alla morte che quindi possono accentuare le differenze di coppia in merito a come il dolore viene affrontato.

Queste differenze riguardano il fatto che i padri non solo sono sconvolti per la morte del figlio, ma sono anche scioccati per l’intensità del dolore provato dalla propria moglie.

Questo li porta a sopprimere i loro reali sentimenti di angoscia allo scopo di supportare le loro mogli e tenere le redini di una situazione che appare disperata.

Questo sentimento di angoscia e disperazione provato dai genitori a seguito di un lutto farà fatica a sopirsi, anche nel caso in cui i genitori decidano di avere un altro figlio; per cui questo grande dolore si ripresenterà costantemente all’interno della loro vita.

Il problema è che l’incapacità di accettare che il figlio abbia vissuto così poco rende ancora più difficile l’accettare la morte.

La riluttanza di molti ospedali ad offrire un servizio esplicativo in merito alle morti premature non fa altro che aumentare i problemi derivanti dal dare un significato alla morte e spesso le madri in situazione di lutto lamentano, poi, la mancanza di appoggio ricevuta dai medici “Sembrava si vergognasse di me. Sono passata attraverso la stessa porta delle altre donne in gravidanza, ma sono dovuta uscire passando da una porta posteriore. Il dottore mi disse che qualcosa era andato storto. Ero devastata.”23

Progetti particolareggiati sulla futura vita del figlio, sulla sua crescita , sul suo sviluppo non fanno altro che far aumentare il dolore; e la perdita di questi sogni, che ormai i genitori avevano interiorizzato, ha bisogno di essere accettata, poi abbandonata, affinché si crei stabilità.

La stabilità può essere compromessa se la madre rimane nuovamente incinta, con la conseguente paura di diventare troppo attaccata al nascituro.

I bambini che nascono, ma vivono solo per poche ore o che vivono per un periodo più lungo, ma solo grazie all’aiuto di cure mediche intensive, presentano genitori spiazzati dal dolore per la perdita di questo soffio di vita della quale nessuno ha potuto godere ad eccezione dello staff ospedaliero.

Molte madri conservano sentimenti di colpa e frustrazione anche molto tempo dopo la perdita di un figlio molto piccolo, mentre i padri spesso evitano di frequentare il luogo della sua sepoltura e sono riluttanti all’idea di parlarne.

Quindi indubbiamente le madri sono le più colpite, essendo più vulnerabili.

Sono socialmente isolate e spesso abbandonano il lavoro; quando decidono di riprenderlo sono pervase da un senso di colpa e di fallimento ancora più forte.

All’interno della famiglia devono lavorare in modo arduo per aggiustare il nuovo ruolo parentale, devono essere in grado di ritagliarsi degli spazi vitali propri e devono continuare a prendersi cura degli altri figli, qualora ce ne fossero.

Quando questi compiti possono essere condivisi con il marito, egli potrebbe trovare una maggiore difficoltà ad accettare questa improvvisa ed inesplicabile perdita ed egli può faticare ad accettare la nuova routine.

Qualora la relazione con il figlio fosse stata irritante e la sua presenza considerata scomoda, il conseguente senso di colpa dei genitori, derivante dal rimpianto di non averlo amato come dovuto, potrebbe essere molto difficile da superare.24

La crisi derivante da questa terribile esperienza è ovviamente incomparabile.

I genitori si trovano in mezzo tra la vita e la morte.

Le madri spesso si sentono responsabili dell’accaduto, e si sentono morte loro stesse; il recupero sembra essere qualcosa di impossibile e di lontano sebbene questa idea appaia prematura all’interno di questo processo.

La durata del dolore si manifesta in diversi modi ed è condizionata da alcuni fattori; qualcuno ad esempio vive per diverso tempo in preda a strani simboli, auspici, sogni.

L’esperienza di questo dolore, oltretutto, non è solo momentanea e processuale ma poliedrica e stratificata: il trauma, il dolore e l’eventuale recupero sono correlati in modo complesso.25

Le inquietudini del trauma e la sofferenza a seguito del lutto si manifestano in maniera somatica e non verbale e questo rende molto difficile per gli assistenti portare aiuto ad una persona che esternamente è calma, ma internamente è tramortita ed incapace, a causa dello shock, di provare qualunque tipo di sentimento all’infuori della desolazione provata per la perdita del figlio.

La perdita di un figlio molto piccolo si conclude in un forte dolore che corre in senso inverso alle aspettative, perché i genitori hanno infatti investito grande energia verso un bambino che ha vissuto così poco e, come conseguenza di questa perdita, essi tendono a tenerlo vivo nella loro memoria.

Genitori molto giovani che perdono il loro primo figlio hanno bisogno di un supporto maggiore rispetto ad altri, soprattutto nel caso in cui si trovino ad abitare in un paese diverso da quello in cui sono cresciuti e nel quale, di conseguenza, hanno poche relazioni sociali: spesso in questi casi, infatti, rischiano di rimanere soli.

Un importante ruolo di supporto è ricoperto anche dagli altri figli presenti.

Essi possono cercare di consolare i genitori, per quanto sia loro possibile, ed arrivare quasi ad assumere il ruolo di “terapisti” nella relazione familiare anche perché spesso sono in grado di celare il loro immenso dolore pur di aiutare i propri genitori.

Soffrono intensamente anche i nonni, perché appare essere contro natura l’idea che un nonno sopravviva al proprio piccolo nipote.

Generalmente le nonne, identificandosi con la madre, soffrono molto di più rispetto ai nonni che, pur dando il loro appoggio ai genitori colpiti da lutto, faticano ad esprimere i propri pensieri e manifestare i propri sentimenti.

Il dolore delle famiglie colpite dalla perdita di un figlio molto piccolo richiede perciò grande tolleranza e condivisione e solitamente i membri della famiglia stanno vicini l’uno all’altro e tendono ad innalzare un muro intorno a loro: in questo modo possono piangere la scomparsa del proprio figlio in maniera intima.

E questa intimità è necessaria a seguito di morti premature.

Molti genitori spesso poi manifestano il dolore per la perdita e il senso di vuoto in modo psicosomatico; molte madri sono più in grado di altre di manifestare verbalmente i sentimenti provati, ma

tutte le perdite comportano sentimenti di angoscia, inquietudine, panico ed ansia che causano il fatto che la madre tende a mantenere “vivo” il proprio bambino.

Infatti, nonostante la morte, le madri si sentono ancora dipendenti dal proprio figlio che continua ad esistere nonostante non lo sia più da un punto di vista fisico.

Continuano a preoccuparsi per lui e questo comporta anche il fatto che alcune donne visitino giornalmente il luogo in cui il figlio è sepolto proprio per mantenere vivo questo legame di unione che diventa però così simbiotico che, poiché il figlio si trova in una tomba, a lungo andare anche la madre arriverà a sentirsi in una tomba essa stessa.

Di contro, c’è però anche la metafora religiosa che porta a vedere il bambino come un angelo e questa idea, se da un lato comporta indubbiamente maggiore sollievo, dall’altro spacca questa traumatica esperienza in due: la sconcertante idea di un figlio sepolto e l’idea di un angelo consolatore.

L’elaborazione di questo lutto, infine, richiede molto tempo: sebbene l’inquietudine, l’ansia e la depressione scompaiano, il dolore continua per lungo tempo e i primi anni sono indubbiamente i peggiori poiché quello del dolore è un processo circolare caratterizzato da un’intensa emozione di sofferenza e da un ossessivo bisogno di trovare una causa ragionevole per ciò che è accaduto.26

1.4 MORTE DI UN FIGLIO ADULTO

La morte di un figlio o di una figlia più grande é molto diversa per i genitori a causa dello speciale rapporto che essi avevano avuto con lui adolescente e in questa fase del rapporto, come tali, si preoccupano vedendo i loro ragazzi correre dei rischi, provare cose ignote e fronteggiare problemi.

I genitori di solito resistono a questi primi passi verso 1’indipendenza. Ma proprio questa resistenza può causare in loro un senso di colpa dopo che il ragazzo é morto.

Ricordano vividamente le porte sbattute, i battibecchi arrabbiati, le ramanzine, talvolta si chiedono se siano stati abbastanza protettivi e spesso i genitori di vittime di incidenti stradali si sentono colpevoli per aver permesso ai propri ragazzi di avere un’auto o una moto.

Essi avranno bisogno di essere rassicurati sul fatto che le discussioni che hanno avuto con il figlio erano parte normale dello sviluppo di un’adolescenza e, come genitori, hanno fatto il meglio che potevano. Quando muore un adolescente, il dolore dei congiunti di solito é pieno di amarezza perché era stato fatto un grandissimo investimento che non ha dato alcun frutto.

Per i genitori più anziani, che i loro figli grandi muoiano prima di loro é intollerabile ed innaturale e produce in loro un particolare senso di colpa. Essi, inoltre, sentono che se fossero stati dei genitori migliori avrebbero avuto la capacità di proteggere il figlio dalla sua morte prematura. La collera provocata da questa morte a volte viene rivolta contro il coniuge ed i nipoti.

I genitori che hanno perduto un figlio adulto, che aveva già costruito una vita propria, spesso si trovano estremamente soli: il coniuge ed i bambini della vittima verranno confortati da tutti, ma pochissimi realizzeranno che anche gli stessi genitori della vittima stanno soffrendo profondamente.

Nel caso di un figlio adulto, comunque, la perdita assume un valore piuttosto differente rispetto alla morte di un figlio più piccolo.

Il senso di totale indipendenza del figlio dà significato alla relazione con lo stesso, che è quindi in grado di assumersi le proprie responsabilità, perciò il fatto che il figlio sia cresciuto e abbia una propria personalità, rende questa perdita molto difficile da accettare sia in riferimento alla relazione che fino a quel momento era stata costruita, sia per la relazione che sarebbe stata in futuro.

I genitori colpiti da questo grave lutto manifestano grande ansia e, anche a molti anni di distanza da questo tragico evento, tendono ad avere problemi dal punto di vista affettivo, somatico, sociale e psicologico.

Paradossalmente, la morte di un figlio adulto e la conseguente perdita del contatto vitale con lui, porta a far aumentare la solidità della relazione con lo stesso, ora interiorizzato e facente parte della memoria dei genitori.

In molti casi la positiva valutazione, l’investimento in termini di progetti futuri e il coinvolgimento nei confronti del figlio deceduto rimangono sproporzionatamente elevati per molti anni e con notevoli costi per la relazione interpersonale con gli altri figli.

Questo comporta costanti pensieri e angoscia pensando a lui; e questa situazione rende difficile la risoluzione di questo lutto.

Spesso può rimanere un attaccamento patologico con il figlio defunto, che a lungo andare può diventare disfunzionale per le altre relazioni all’interno della famiglia soprattutto con gli altri figli.

Questo genere di perdita, perciò, accompagna i genitori per il resto della loro vita e molti faticano a riprendersi. Il problema è dato dal fatto che spesso la morte di un figlio adulto implica che gli stessi genitori abbiano ormai un’età avanzata e di conseguenza la loro più grande paura è quella che il figlio “morirà” per sempre quando essi stessi moriranno, poiché non vi sarà più alcuno che lo terrà vivo, in termini di ricordi, con la loro stessa intensità.

Quindi questo tipo di lutto comporta un maggiore coinvolgimento emotivo con il figlio deceduto a discapito della relazione con gli altri figli, e di conseguenza i genitori vedono talvolta diminuita la loro capacità di impegnarsi emotivamente con i propri restanti familiari.

Questo accade perché le responsabilità nei confronti del figlio deceduto permangono e proseguono a fianco di quelle dei figli ancora in vita; ma inevitabilmente questo atteggiamento porta a far insorgere nei genitori un grande senso di colpa nei confronti degli altri figli.

Questi genitori sembrano quindi vivere in due mondi separati, un mondo reale ed una realtà alternativa: spesso, infatti, il figlio scomparso è percepito come più vicino, accessibile e reale degli altri figli.27

La morte di un figlio adulto, perciò, implica una particolare e traumatica forma di dolore, forse la più stressante e duratura. La perdita di un figlio adulto avviene poi generalmente in un momento della vita in cui non è più neanche possibile che questo vuoto venga “colmato” con la nascita di un altro figlio, avendo ormai i genitori un’età in cui non è più possibile concepire e questo porta le madri, maggiormente rispetto ai padri, a mostrare più alti livelli di depressione.28

La morte di un figlio adulto impatta in maniera devastante sull’ intera famiglia e può produrre enormi angosce e durare per molto tempo.

Quando inopportunamente questa perdita arriva, la famiglia sperimenta un senso di crudele ingiustizia a causa della fine di questa vita proprio nel fiore degli anni.

Il figlio adulto è pieno di impegni, aspettative e progetti che però la morte improvvisa ha impedito che fossero realizzati e il dolore e il senso di colpa, che sempre accompagna i genitori in caso di lutto, li inibisce dal continuare la propria vita così come si svolgeva prima dell’evento luttuoso.

Il problema del senso di colpa può anche arrivare a lacerare l’animo dei genitori qualora il figlio adulto avesse avuto un rapporto conflittuale con la famiglia, o fosse morto per suicidio, overdose, o comunque a causa di una morte “cercata” e in questo caso, probabilmente, l’elaborazione del lutto sarà più complicata.

In caso di morte per atteggiamento di auto-distruzione i genitori possono nutrire un sentimento di rancore nei confronti del figlio morto, frustrazione per questo atteggiamento da lui tenuto e tristezza per questa perdita senza senso.29

“Nella vita siamo chiamati sempre a scegliere, anche solo se sorridere o chiuderci nel nostro dolore. E, a seconda delle scelte che facciamo, avremo o no la pace nel cuore”. (M. Frankel)

I PERCORSI DEL LUTTO E L’ELABORAZIONE DEL DOLORE

Nella società contemporanea il rapporto delle persone con la morte è uno dei momenti più difficili ed ambivalenti dell’esperienza quotidiana e spesso viene vissuto in modo schizofrenico; mentre da un lato i moderni mezzi di comunicazioni di massa portano nelle nostre case dosi sempre più massicce di violenze, dall’altro la morte dei propri cari è sempre più avvolta da una cortina di silenzio e di pudori imbarazzanti. Per usare le parole di padre David Maria Turoldo c’è uno “scialo di morte pubblica” a cui fa da contraltare la rimozione della morte nella sfera privata. Anche la comunità cristiana vive questa difficoltà nel farsi prossimo ai morenti e ai loro familiari; sono infatti sempre meno efficaci i tradizionali strumenti rituali e consuetudinari che accompagnavano il sistema familiare nei momenti del trapasso e del successivo lutto e diventa sempre più difficile aiutare e sostenere chi viene colpito dalla scomparsa di una persona cara. Perciò diventa rilevante una riflessione sui metodi, sui contenuti e sugli strumenti dell’accompagnamento dei morenti e dei loro congiunti. E’ urgente restituire alla famiglia il suo ruolo fondamentale nell’elaborazione del dolore, della perdita, del lutto, in particolare in una società che rende spettacolo i dolori “lontani” e tenta invece di nascondere e dimenticare il dolore e il lutto che la morte inevitabilmente inserisce nel vivo dell’esperienza quotidiana delle persone.1 Il distacco psicologico da una persona significativa non è uno stato, ma un processo che ha bisogno di tempo per espletarsi. Si parla appunto della necessità di elaborare il lutto, di passare cioè dalla percezione di sé insieme con l’altro alla solitudine, fino al recupero della propria interezza e integrità. Quando il lutto viene elaborato ci si distacca psicologicamente dalla persona scomparsa e si chiude l’esperienza dolorosa della perdita. Questo non vuol dire che ci si dimentica del dolore o del rapporto che c’è stato, anzi, i ricordi interiorizzati del passato sono essenziali per capire e spesso dare un senso al nuovo capitolo di vita che si apre. Il percorso emotivo che solitamente si attraversa in conseguenza di un lutto grave riguarda le fasi che verranno di seguito analizzate, ma non sempre si tratta di un percorso obbligato; non sempre questi momenti si presentano allo stesso modo. Al di là di certi aspetti emotivi ricorrenti, l’osservazione clinica conferma che ogni esperienza nel profondo è diversa dalle altre e che ogni modalità di superare il lutto è estremamente personale. Tuttavia i punti che verranno analizzati danno modo di sottolineare e di indicare alcuni comportamenti che aiutano a superare il dolore della perdita, evitando di farne un’esperienza alienante. La negazione del dolore L’assenza definitiva e assoluta di una persona alla quale si è legati in modo significativo è un’idea che solo con angoscia può essere pensata razionalmente. Infatti molti autori concordano nell’affermare che la morte degli altri suscita paura anche perché ci ricorda la nostra stessa fine. Quando scompare un congiunto può succedere inizialmente che la persona tenda a negare, a non voler riconoscere la realtà di ciò che è appena avvenuto. E’ come se la mente, non potendo sostenere l’angoscia che ne consegue e il rischio della disgregazione, si difendesse non riconoscendo la situazione per quella che è. Si tenta in questo modo di arginare il dolore e il rischio dell’annientamento. Si tratta di reazioni che possono essere manifestate sia dagli adulti che dai bambini ed è chiaro che, in questo caso, parlando di morte ci si riferisce a quella precoce, improvvisa ed inaspettata che non lascia il tempo per un addio graduale.2 In diverse circostanze, alla conseguente perdita di un membro, si struttura in famiglia una strategia generalizzata del silenzio. Tutti sono consapevoli della sofferenza altrui, ma non c’è il coraggio di parlarne e così si mantiene un falso equilibrio che con il tempo potrà dar luogo a pesanti disagi. Gli adulti hanno diversi modi di evitare la manifestazione diretta dei sentimenti e di negare il dolore. Al capezzale del defunto non è raro sentire raccontare ripetutamente e, con dovizia di particolari, la cronaca di come si sono svolti i fatti, ad esempio di come è cominciata a manifestarsi la malattia, delle cure mediche o della dinamica dell’incidente, arrivando a ripercorrere ossessivamente tutte le circostanze che hanno preceduto la morte. Il timore di parlare di sè e di ciò che si vive nel qui ed ora rispetto alla situazione, il disagio dato dal silenzio e dal non sapere cosa dire contagia ben presto tutti coloro che sono presenti. Viene a crearsi un tacito e inconsapevole accordo con l’obiettivo di evitare qualsiasi riferimento chiaro e diretto ai sentimenti di ognuno, in quella particolare circostanza. Anche a più lungo termine, può succedere che gli aspetti pratici e l’esigenza di riorganizzare concretamente e subito la vita familiare predomini rispetto alla necessità di venire in contatto con ciò che si prova e si pensa intimamente. Ecco allora che il genitore aumenta le sue occupazioni, tentando disperatamente di darsi da fare, poiché ritiene o fa finta di credere che le esigenze materiali ed economiche siano aumentate. Solitamente si pensa che questo darsi da fare sia un buon antidoto al normale avvilimento che segue il lutto mentre, probabilmente, il dolore evitato costantemente nel primo periodo può portare ad una reazione depressiva vera e propria. Non c’è, quindi, per queste famiglie il tempo, l’urgenza, spesso la consapevolezza di condividere le tracce emotive lasciate dalla perdita. Tuttavia l’autocensura dei sentimenti non sempre riesce del tutto. Lì dove si crea uno stato di tensione interiore, un’irritabilità di fondo, a causa dello stress del lutto, l’organismo tramuta la sofferenza psicologica in disturbo psicosomatico: il corpo parlerà allora della solitudine, della preoccupazione e del dolore che affligge la persona.3 Perciò è sicuramente liberatorio riconoscere ciò che è avvenuto e sta avvenendo; per quanto lacerante sia, la sofferenza deve essere compresa, accertata e possibilmente condivisa con altri familiari. Quando si è disponibili a parlare del defunto, a ricordare con rabbia, paura, affetto e nostalgia, allora questo è il segno che è iniziato il processo di risoluzione della crisi. Dare parole ai sentimenti Chi subisce una perdita vive la separazione e il distacco dalla persona morta con più facilità se dà voce ai sentimenti che prova. Esprimere le emozioni aiuta chi soffre a non lasciarsi schiacciare da esse; si tratta di dare ordine ai diversi vissuti che si accavallano, connettendo i significati emotivi rispetto a sè, al defunto, alla relazione che non c’è più. Questo è il primo passo per tornare a dare un senso compiuto all’esperienza che si sta vivendo. Rivisitare la relazione avuta nel passato con il defunto è importante per l’oggi e per il domani. Qualche volta, infatti, ciò che aiuta a superare il lutto e dare l’addio alla persona cara, è la rinuncia alla speranza magica di un rapporto migliore con lo scomparso. E’ determinante in questi casi, oltre la perdita in sé della persona, il tipo di relazione che c’era, il modo in cui ci si sentiva insieme e ci si è dati l’addio. Anche Susanna Tamaro in un suo celebre romanzo fa dire alla protagonista “…i morti pesano non tanto per l’assenza, quanto per ciò che- tra loro e noi- non è stato detto”.4 La perdita dell’altro quindi sarà più o meno sopportabile in relazione a ciò che tra essi è rimasto incompiuto, non chiarito poiché, ora, non si ha più la possibilità di un recupero, di un risarcimento o del perdono dell’altro. Non si può più rimediare e questa consapevolezza spinge spesso a sentirsi in colpa, come già osservato. Perciò è importante riconoscere i sentimenti provati, monitorarli, dargli un nome per gestirli al meglio e non farsi trascinare dal turbinio delle emozioni che in questi casi si subisce. Per alcune persone i sentimenti non esistono fino a quando non viene data loro voce e parola, fino a quando non gli viene dato un nome. E’ necessario allora saperli riconoscere, spiegarseli, accettarli per poterli anche superare. Ci si riferisce alla tristezza, alla paura della solitudine, alla preoccupazione di rimanere senza protezione, all’impotenza, al senso di colpa o di rabbia nei confronti dello scomparso stesso e, in alcuni casi, al timore di non sapere sopportare il peso dell’aumentata responsabilità familiare. La perdita di una persona cara può stimolare quindi diverse emozioni. Il sentimento che si vive al presente è la tristezza per la scomparsa, mentre l’eventuale senso di colpa, o il risentimento, si riferiscono a circostanze trascorse, a eventi vissuti precedentemente con il defunto. La paura invece è più spesso relativa all’incertezza e all’insicurezza che il futuro riserva e all’idea di vivere senza l’altro accanto. Accettazione della perdita Accettare una perdita, e il dolore che ne consegue, vuol dire riconoscere, prendere atto del fatto oggettivo che è avvenuto e dei sentimenti e delle specifiche reazioni emotive che interiormente quell’evento ha prodotto. Solo dopo un lento processo di constatazione e riconoscimento della realtà, la persona accetta l’idea di poter vivere anche senza l’altro. Si è, dunque, in presenza del dolore vero che si esprime e diventa utile nel momento in cui chiude e completa una forte esperienza umana. Con il trascorrere del tempo la realtà non viene più contrastata e il futuro lascia intravedere un filo di speranza. Si entra così pian piano in una fase di distacco in cui il defunto viene lasciato andare, non è più trattenuto e la vita viene proiettata di nuovo in avanti. Questo passaggio, che solitamente dura dai sei mesi ai due anni, richiede che si attivino tutte le risorse personali per far fronte alla situazione da un punto di vista realistico e razionale, di presa d’atto delle circostanze specifiche. Quando si molla il filo a cui è ancora appesa la presenza dell’altro (vecchie immagini fisse, ricordi obbligati) il passato sfuma sempre di più, allora, si riprende a vivere nel presente.5 Poiché la reazione al lutto spesso fatica a cambiare, anche ad anni di distanza dall’accaduto, alcuni genitori si rendono conto di quanto sia necessaria una terapia, con l’obiettivo di poter tornare a vivere la realtà del presente. La camera del figlio rimane intatta, i suoi oggetti non sono stati dati via, la biancheria e i libri sono sempre al loro posto; per i fratelli, qualora ce ne fossero, è una stanza tabù. Parlando del figlio i genitori spesso idealizzano “Nessuno lo equiparava per come sapeva essere per ciò che sapeva fare”. Si può immaginare che nel momento in cui riusciranno a ricordarlo semplicemente per quello che era, quello sarà un segno incoraggiante. Il problema è che spesso sembra si crei tra i coniugi una specie di alleanza nel non volersi separare mentalmente dal figlio e anzi, uno rinforza il blocco dell’altro con specifici ricordi. Durante la terapia spesso i genitori si rendono conto della rabbia che covano al proprio interno e diviene chiaro che il loro rifiuto a tornare a vivere e sperare trae origine da quel dolore, per troppo tempo rimasto inespresso. Ecco allora che si pone la necessità di dare voce alla sofferenza, di dare significato a quel senso di inquietudine e rancore che essi hanno dentro. Si sentono defraudati del proprio ragazzo, la rabbia che provano è indirizzata verso tutti e tutto; la società, i coetanei sopravvissuti, i parenti che non comprendono il dolore e, talvolta, anche il figlio stesso che ha “la colpa di essere morto”. Ovviamente questa rabbia è assolutamente disfunzionale allo scopo, visto che il figlio non c’è più e nessuno potrà mai restituirlo. Marito e moglie imparano così a condividere più direttamente le paure e il disorientamento, esprimono i sentimenti di abbandono e di amore, riuscendo a sostenersi l’un l’altro e a spostare maggiormente l’attenzione e le energie verso la realtà a loro più vicina. Dopo questa fase liberatoria essi più facilmente potranno recuperare l’attualità della loro vita, che sarà all’insegna del presente e non del passato; inizia così quel processo di distacco che andrà alimentato dalle mille, piccole decisioni comuni che seguiranno all’insegna del nuovo spiraglio di vita. Il futuro non chiede a questi genitori di dimenticare, come spesso si teme, ma di lasciare andare il figlio; il rimpianto si trasformerà allora in coraggio e speranza. Alcuni tratti e caratteristiche della persona scomparsa vengono naturalmente fatti propri da chi le è rimasto legato; il modello e il ricordo della sua figura continueranno ad influenzarne la vita; ciò non esclude una revisione del rapporto avuto in precedenza, un realistico consuntivo dei pro e dei contro, al di là dell’idealizzazione forzata rispetto a chi se n’è andato.6 Riorganizzazione e reintegrazione Spesso chi perde un figlio non riesce più a riprendere la speranza, non torna più a vivere pienamente. La reazione è quella di cristallizzare la vita, fermandola proprio al momento del distacco e alimentandola solo nei ricordi che il tempo diraderà sempre di più. Così accade che i genitori ritengano che il ricordo doloroso della perdita di un figlio e la sofferenza perenne siano proprio i modi con cui essi continuano ad amarlo: senza quel dolore che di tanto in tanto arriva al loro cuore, cioè al centro del desiderio dell’essere umano, tutto sarebbe finito veramente. Sono quei casi in cui il dolore viene a coincidere con l’amore che si alimenta e vive grazie alla sofferenza perpetua; si tratta di un’equazione che, in un modo o nell’altro, ostacola la piena e completa reintegrazione della persona che ha subito il lutto.7 La realtà, infatti, vuole che l’amore sia indirizzato a persone vive, poiché se da una parte è vero che esso implica spesso anche la sofferenza, dall’altra richiede a gran voce che ci sia una speranza, senza la quale sarebbe appunto un amore illusorio, un sogno. Il superamento del lutto è più facile nel momento in cui si torna ad occuparsi degli altri, a intessere relazioni, ad assumersi nuove responsabilità. La continuità dell’esperienza prosegue; la ripresa della speranza permette di riorganizzare anche la vita affettiva, in vista di un presente che va riordinato e di un futuro che è possibile ancora progettare. Rispolverare vecchi rapporti, far nascere nuovi legami di stima e di amicizia sono segni che indicano un nuovo fiorire della vita. Si ritorna, giorno dopo giorno, a valorizzare il proprio quotidiano e anche l’essere soli diventa più sopportabile. Le attività su cui ci si impegna acquistano nuovamente senso. L’esperienza del lutto è così compiuta. Per non fare della separazione e della perdita un trauma che inibisce la vita, possono essere elencati alcuni punti, come condizione necessaria e garanzia che ciò avvenga. Le certezze che dovrebbero essere fatte proprie, potrebbero essere così sintetizzate: È necessario riconoscere ed accettare le proprie perdite. Va bene esprimere i propri sentimenti. Si può vivere il dolore senza che questo schiacci la persona. Riorganizzare la vita dopo una separazione o una perdita è giusto e possibile. Quando il lutto è risolto il passato non scompare, ma diviene patrimonio dell’individuo, che lo integra con il presente. Grazie alle notevoli capacità che gli esseri umani hanno di adattarsi alle diverse situazioni, anche le più dolorose, si può giungere ad un nuovo progetto di vita che lascia intravedere uno spiraglio di speranza. 8 Sono stati numerosi gli autori che hanno trattato questo argomento e, a proposito, merita di essere citato l’apporto della Rando che ha parlato delle “6 R” nel processo delle fasi del lutto. Per quanto la studiosa si riferisca principalmente alle perdite seguenti un lutto, ciò che però sottolinea è che il suo modello può essere generalizzato ad altri tipi di perdite. FASE DELLA FUGA: Riconoscerela perdita. Questoinclude sia il riconoscimento che una perdita è avvenuta, sia la comprensione in merito al pieno significato della morte e dell’evento luttuoso. FASE DEL CONFRONTO: la persona in lutto deve Reagire alla separazione da ciò che è stato perso. Questo include l’esperienza della sofferenza e la ricerca di appropriate espressioni di tutte le emozioni che la persona prova in quel momento. Durante questa fase è anche necessario Ricordare il defunto e la relazione con lo stesso attraverso il ricordo. Infine, la persona in lutto deve Rinunciare al legame precedentemente esistito con il defunto ed abbandonare quel mondo ovattato che c’era in passato. FASE DELL’ACCOMODAMENTO: include il processo di Riaggiustamento all’interno di un mondo nuovo, senza dimenticare comunque il proprio passato, e di Reinvestimento in una vita significativa.9 Reazioni normali al lutto Per quanto ogni reazione al lutto comporti angoscia e indebolimento del normale “funzionamento” della persona, diversi autori hanno sottolineato come queste reazioni potrebbero essere viste come atteggiamenti normali. Lindeman individuò un modello di reazioni tipiche al lutto descrivendole in termini di: Disturbi fisici Vissuti di preoccupazione accompagnati da pensieri e immagini della persona scomparsa Sensi di colpa Reazioni ostili ed irritabilità verso numerose persone, inclusa la persona deceduta Irrequietezza ed iperattività senza alcun modello organizzato di condotta o senza nessuna capacità di fissare e di raggiungere degli obiettivi10 Anche Marris evidenziò che tra le reazioni più comuni alla perdita si potevano riscontrare: difficoltà nel dormire, deterioramento della salute, perdita di contatto con la realtà, senso di presenza della persona scomparsa, apatia, isolamento da interazioni sociali, ostilità ed irritabilità. Le persone colpite da lutto devono superare la credenza che la loro perdita non sia reale, ma, allo stesso tempo, tendono ad evitare i dati di realtà a causa del dolore e della disperazione che proprio questa realtà comporta. Tendono a rispondere con ostilità ed irritabilità a quelle persone che offrono loro consolazione.11 Parkes suggerisce che il lutto costituisce una perdita di sicurezza che viene percepita come minacciosa e che provoca uno stato di tensione e di allarme. Inizialmente i familiari del defunto possono comprendere la loro perdita ad un livello e contemporaneamente negare la sua realtà ad un altro, mentre la loro ansietà può condurli a porsi l’obiettivo di cercare di recuperare l’ “oggetto” perduto. Egli descrive questa fase come caratterizzata da: allarme, tensione, irrequietezza, senso di preoccupazione con pensieri e immagini della persona scomparsa, attenzione puntata sul luogo in cui la persona probabilmente potrebbe trovarsi se fosse viva in quel momento e così via. Questi sono tentativi di “localizzare” la persona scomparsa, atteggiamenti messi in atto con il tentativo di ricercare e ritrovare ciò che si è perduto. Con la diminuzione dell’attività di “ricerca” del defunto ed un aumento di consapevolezza della realtà della perdita, i familiari in lutto attraversano un periodo in cui i sentimenti di inutilità, disorganizzazione e disperazione diventano prevalenti; le attività abituali ed i ruoli precedentemente definiti in relazione alla persona deceduta, appaiono ridondanti ed inappropriati. L’attività rimane disorganizzata e senza significato fino a quando non vengono sviluppati nuovi modelli di interazione e vengono messi a fuoco nuovi obiettivi di comportamento che, per essere conseguiti, non dipendono più dall’azione reciproca con la persona scomparsa. Gradualmente i familiari riprendono i loro vecchi contatti sociali, sviluppano delle nuove relazioni e definiscono nuovi obiettivi.12 Pangrazzi 13, infine, effettua una precisa analisi delle reazioni tipiche al lutto dividendole in: reazioni a livello fisico: fitte al petto, episodici momenti di panico o soffocamento, mal di testa o sensazioni di forte compressione al capo, insonnia, inappetenza, perdita della forza fisica, senso di irrequietezza, mancanza di desiderio sessuale; reazioni a livello emotivo: shock (che può manifestarsi con stordimento, panico, incredulità e rifiuto), rabbia, senso di colpa, paura, tristezza, depressione. In alcuni casi, nei superstiti, si genera anche del sollievo, reazione che suggella una lunga malattia da cui i familiari escono esausti: in questo caso la morte pone fine ad uno straziante calvario; reazioni a livello mentale: difficoltà a concentrarsi, perdita della progettualità, ricerca della persona perduta; reazioni a livello spirituale: consapevolezza della propria finitezza, illusione di immortalità, ruolo di Dio, ricerca di significato; reazioni a livello sociale: risentimento verso gli altri, senso di non appartenenza, elaborazione di una nuova identità. In caso di morte improvvisa o immatura, comunque, si manifestano con maggiore probabilità le più gravi e prolungate reazioni al lutto; genitori che affrontano la morte di un figlio hanno problemi di adattamento particolarmente gravi, dato che questa viene percepita come perdita immatura, innaturale ed ingiusta a differenza di coloro che, avvertiti di una malattia inguaribile, hanno l’opportunità di fare tutto ciò che possono a favore della persona morente ed evitare così il senso di colpa che può essere associato alla scarsa comunicazione, alle relazioni difficili e a comportamenti non appropriati nel periodo precedente la scomparsa della persona cara. Reazioni atipiche al lutto Per “atipiche” reazioni al lutto si definiscono quei modelli di reazione che non tendono, come ci si aspetterebbe, a diminuire e a moderarsi con il passare del tempo e che interferiscono in modo significativo con il funzionamento personale e sociale, spesso in modo così forte da portare i colpiti da lutto a chiedere un aiuto professionale. Tali reazioni sono state denominate come “patologiche”, “complicate” o “morbose”. Ogni persona interessata ad aiutare le persone colpite da lutto dovrebbe essere consapevole che il recupero dopo il lutto non può avvenire secondo norma; essi dovrebbero perciò essere capaci di individuare i segni di atipiche reazioni di afflizione ed essere sensibili ai fattori che possono accrescere la vulnerabilità del familiare in lutto e renderlo meno capace di far fronte con successo alla sua perdita. I soggetti che soffrono di afflizione atipica esprimono in maniera significativamente maggiore sentimenti di colpa e di autoaccusa ed evidenziano una maggiore difficoltà ad accettare la loro perdita, mostrano una anormale durata dell’afflizione e una inusuale intensità, una reazione ritardata al lutto e attacchi di panico. Come si evince da quanto fino a qui descritto, le reazioni di afflizioni atipica sono strutturalmente simili alle reazioni normali, dalle quali si differenziano perché caratterizzate da una maggiore esagerazione o distorsione così da rendere le persone incapaci di ritrovare l’equilibrio. Parkes 14 individua diverse categorie di afflizione atipica: Il dolore inibito, laddove le normali reazioni al lutto sono assenti oppure espresse in maniera distorta L’afflizione cronica, in cui sono presenti le normali reazioni, ma il loro superamento non si verifica secondo il normale andamento e secondo i normali limiti temporali L’afflizione ritardata, in cui sia la consapevolezza della realtà della perdita che le modalità di espressione del dolore sono posposte e sperimentate con particolare gravità solo in un periodo successivo. A questo proposito già Lindeman aveva evidenziato come la “più impressionante e frequente reazione di lutto patologico fosse il ritardo nel riconoscere ed esprimere il dolore”.15 Durante il periodo in cui il dolore rimane inespresso l’individuo può mostrarsi iperattivo, assumere comportamenti autopunitivi, essere ostile verso chiunque. L’autore sottolinea poi l’esistenza di un particolare tipo di afflizione patologica, il “lutto esteriore”, che può essere individuata in un atteggiamento bipolare, di consapevolezza razionale della perdita accompagnata da una negazione emozionale della stessa realtà, che si può estendere per molti mesi. Questa forma di reazione è stata osservata in quelle persone che “rimangono fissate alle reazioni iniziali alla morte e sono prese nel dilemma della perdita e della restituzione senza riuscire a venirne fuori”.16 Quindi l’atipicità delle reazioni al lutto si manifesta con caratteristiche di cronicizzazione, ritardo, esagerazione o distorsione delle reazioni normali di dolore. Alcune persone possono essere così gravemente disturbate nella loro capacità di mantenere delle relazioni e di comportarsi normalmente in risposta alle aspettative sociali, da richiedere assistenza. Il lutto patologico, quindi, comporta una serie di sintomi che possono essere identificati come non caratteristici di una normale risposta al dolore; è perciò un’intensificazione del dolore ad un livello tale che la persona è totalmente distrutta, attua comportamenti assolutamente privi di capacità adattiva alla situazione o rimane in un interminabile stato di sofferenza senza che ci sia la minima progressione verso la risoluzione della situazione. Il lutto patologico, perciò, comporta un processo che non muove assolutamente verso l’assimilazione o l’accomodamento, ma al contrario, porta spesso ad interrompere qualunque tipo di cura.17 Il lutto “patologico” è dunque quello che, a distanza di diverso tempo dalla perdita, risulta essere distorto ed eccessivo. Questo tipo di lutto deriva dall’incapacità di accettare l’accaduto e le conseguenze si possono avere a livello psicologico, comportamentale e sociale. In questi casi interventi da parte di professionisti sono necessari ed è importante che avvengano anche se, talvolta, la persona colpita da lutto sarà contraria a qualunque tipo di “cura”.18

1ALESSI A., Strappi di vita, Pavia, Bonomi, 1999, p. 100

2HUMPHREY G.M., Counselling for grief and bereavement, London, Sage Publications, 1996,p. 1

3Ivi, p. 2

4HERZ F., ”The impact of death and serious illness on the family life cycle”, in CARTER & Mc GOLDRICK, (a cura di) The family life cycle: a framework for family therapy, New York, Gardner Press, 1980, pp.225-234

5SMITH C.R.,Vicino alla morte.Guida al lavoro sociale con i morenti e i familiari in lutto, Trento, Centro Studo Erickson, 1990, pp.110-112

6Ibidem

7ANTONELLI F., Per morire vivendo, Roma, Città Nuova Editrice, 1990, p.17

8Ivi, p. 20

9RICHES G. & DAWSON P., An intimate loneliness, Philadelphia, Open University Press, 2000, pp. 131-132

10SCABINI E., “Affrontare l’ultima transizione: relazioni familiari alla prova”, in SCABINI E. – DONATI P. (a cura di), Tempo e transizioni familiari, Milano, Vita e pensiero, 1986, pp. 91-92

11Ivi, pp. 94-97

12http//www.fevr.org

13BERTI G. & BERTI A.S., “Quando muore un figlio”, in Il Delfino, 1999, 3, pp. 44 -45

14DI NICOLA G.P. & DANESE A., “Altri volti della vita” in Famiglia oggi, Cuneo, San Paolo Editore, 1999, 10, p. 8-9

15STROEBE M.S., HANSSON R.O., STROEBE W., SCHUT H., Handbook of bereavement research, Washington D.C., American Psycological Association, 2001, pp.148-149

16Ivi, pp.219-221

17Ivi, p.109

18Ivi, p.116

19Ivi, p.121

20Ivi, p.124

21HUMPHREY G.M., Counselling for grief…, London, Sage Publications, 1996, p. 142

22WALSH F. & Mc GOLDRICK M., “A time to mourn: death and the family life cycle”, in WALSH F. & Mc GOLDRICK M. (a cura di), Living beyond loss. Death in the family, New York, W.W. Norton Company, 1991, pp. 37-38

23RICHES G.,DAWSON P. ,An intimate loneliness,…,pp. 140-141

24Ivi, p. 143

25VAISANEN L., “Family grief and recovery when a baby dies” in Zeta. Ricerche e documentazioni sulla morte e sul morire, Bologna, 1997, 20, p. 15

26Ivi, p.16

27STROEBE M.S., HANSSON R.O., STROEBE W., SCHUT H., Handbook of bereavement…, p.230

28ARCHER J., The nature of grief, London, Routledge, 1998, p.121

29WALSH F. – Mc GOLDRICK M., “ A time to mourn: death and the family life cycle”, in WALSH F. – Mc GOLDRICK M. (a cura di), Living beyond loss. Death…, p. 40

 e  continuandoL’osservazione che la perdita comporta una fase di angoscia acuta, una disorganizzazione sociale, nonché la possibilità di una debilitazione a lungo termine, ha portato ad esaminare quali interventi professionali potrebbero venir offerti in queste situazioni e la figura dell’educatore, perciò, risulta fondamentale.

Esistono, a proposito, associazioni che seguono i parenti nella fase successivamente seguente il lutto e gruppi di mutuo-aiuto all’interno dei quali i genitori possono trovare conforto grazie alla presenza di persone competenti, in grado di aiutarle a superare questo difficile momento.

Un’ assistenza appropriata, perciò, offerta nel momento di insorgenza del lutto e per tutto il tempo che è necessario dopo che questo si è verificato, facilita un migliore recupero per la maggior parte delle persone, a differenza di quanto avviene per coloro che non lo ricevono.

Gli obiettivi principali degli operatori che cercano di aiutare le persone in lutto possono essere facilmente individuati. Essi sono:

offrire un “conforto umano e un sostegno basilare”;

incoraggiare l’espressione di afflizione in riferimento ai particolari bisogni ed alla situazione dell’individuo interessato;

promuovere il processo di partecipazione al lutto;

accettare che, laddove sia possibile, questa attività di partecipazione al lutto sia effettuata dai familiari più stretti e dalla rete sociale.19

La persona colpita da lutto è scioccata e tramortita dalla notizia della morte e questa è una reazione del tutto normale; come già sottolineato nei primi giorni o nelle prime settimane, rimane la convinzione della presenza del defunto e il pieno impatto della perdita non siano ancora percepiti.

In questo periodo iniziale i familiari si troveranno probabilmente ben supportati da parenti e amici, che potranno aiutarli ad eseguire le pratiche più immediate connesse alla morte, ma è proprio perché i familiari sono in genere protetti ed “organizzati” dagli altri che ci sono poche opportunità di affrontare, o anche solo di sperimentare, la realtà della perdita.

In questa fase, la realtà e l’esigenza di significato è come se fossero sospese, mentre gli avvenimenti si svolgono “automaticamente” attorno ai familiari in lutto. Essi continuano le attività ordinarie della vita di tutti i giorni, ma senza il significato che viene dall’impegnarsi o dal venir impegnato dagli altri.

Le attività, le pratiche, il funerale, l’interesse dei parenti e degli amici testimoniano che qualcuno è morto, ma tutto ciò viene percepito come irreale ed esterno rispetto alla loro esperienza personale: potrebbe quasi essere successo a qualcun altro.

Gradualmente le reazioni degli altri, la comunicazione di simpatia e di condoglianza, la partecipazione ai funerali e la crescente consapevolezza che il defunto non è più presente, possono confermare e rafforzare la realtà della perdita; la morte viene perciò riconosciuta, ma non ancora accettata.

Ogni educatore in contatto con persone colpite da lutto dovrebbe lasciare passare il primo periodo di tramortimento prima di fare qualsiasi tentativo volto a far riconoscere la perdita.

A questo stadio egli può aiutare nei problemi pratici, essendo comunque disponibile ad incoraggiare il riconoscimento e l’accettazione della morte quando la realtà della perdita affiora e non può più essere evitata.

Quando, successivamente, cominceranno a sperimentare l’assenza del defunto, l’operatore potrà essere d’aiuto in diversi modi:

1. I familiari in lutto possono essere risentiti: nei confronti del defunto perché li ha abbandonati, con gli altri che non possono colmare il vuoto e che non comprendono l’enormità della perdita, con Dio per aver lasciato succedere questa disgrazia, con il mondo che è caduto loro addosso e infine con se stessi per le cose che, quando il defunto era in vita, non hanno fatto e per le cose che non potranno più fare. I parenti e gli amici si aspettano e accettano la manifestazione di angoscia o tristezza, ma essi possono facilmente rimanere sconcertati di fronte all’espressione di rabbia o di irritazione nei loro confronti, reazioni queste che essi non possono comprendere e che percepiscono come ingiustificate, dato che loro non cercavano che di essere utili e di aiutare. L’educatore può invece tollerare questa collera, far capire al familiare, attraverso il suo atteggiamento e le sue parole, che le sue reazioni sono naturali ed accettate. Può inoltre offrire rassicurazioni che c’è qualcuno che non perderà il controllo e nemmeno si tirerà indietro. Per il familiare, avere la possibilità di condividere la sua rabbia con qualcuno che semplicemente non si mostra né scioccato né preoccupato, può aiutarlo a capire che non è cattivo, o speciale, spaventoso o distruttivo, solo perché si sente così. Anche il risentimento che il familiare in lutto può volgere contro se stesso, per reali o immaginarie manchevolezze nella sua relazione con il defunto, deve essere riconosciuto come un importante punto di interesse. L’operatore è in grado di accettare che le persone si sentano arrabbiate per il loro comportamento passato e di puntualizzare contemporaneamente che determinate cose, allora, non potevano essere previste oppure cambiate e che, pertanto, si sta rimproverando ingiustamente. Accettando la validità di qualche sentimento di collera diretto verso se stesso, l’operatore si colloca in una migliore posizione per controbattere quelle aspettative ingiustificate ed irrealistiche che danno origine a questo autobiasimo. La persona in lutto può essere aiutata ad esprimere la propria rabbia, a distinguere quella che è giustificata da quella che non lo è, nonché a sviluppare una qualche prospettiva che chiarifichi e ordini la massa di intensi e confusi sentimenti che questa prova. Ci può sempre essere del rammarico per le cose che non andavano nella relazione con il defunto, o per l’impazienza e l’incomprensione che possono aver provocato, in quest’ultimo, ulteriore angoscia quando egli aveva bisogno soprattutto di conforto e di amore. Comunque, la sostituzione della rabbia e dell’autobiasimo con la tristezza ed il rammarico può avvenire soltanto attraverso l’accettazione, da parte di se stessi e degli altri, della realtà di questi sentimenti e della possibilità di fare cose giuste ed insieme cose sbagliate che è tipica degli esseri umani nelle loro relazioni sociali.

2. L’operatore sociale può incoraggiare il riconoscimento della perdita, evitando di battere in ritirata o di esprimere negazioni. Gli amici possono rivolgersi alla persona colpita da lutto con espressioni di circostanza che realmente significano “Non c’è nulla che si può fare per risolvere il problema”; l’intero problema è troppo grande per poterlo esprimere in poche parole ed una diretta contemplazione della distruzione totale è personalmente troppo scoraggiante perché venga espressa concretamente. Spesso queste frasi, giudicate anche banali, evitano il riferimento alla irreversibilità della morte, si preferisce parlare di “perdita”, termine che non suona troppo male ed implica che qualcosa è stato smarrito, ma che può essere ancora ritrovato.

L’operatore sociale non può permettersi di mostrarsi spaventato e deve evitare di mantenere le distanze dalla persona in lutto, esprimendo affermazioni formali e vuote.

La semplice regola è quella di riferirsi al defunto in quanto morto, in termini che si riferiscono direttamente a quanto successo, con l’uso dei tempi verbali appropriati, con risposte che confermino la realtà piuttosto che accettare semplicemente la fuga del “non credere” o del “non voler cogliere” la verità.

Questa può sembrare una procedura brutale, ma è diretta ad incoraggiare la presa di coscienza della morte, la quale non può essere resa meno dolorosa, pensando che la perdita possa in qualche modo essere assorbita o attutita per il solo fatto di evitarne o ritardarne la consapevolezza.

L’operatore deve fare piazza pulita di ogni falsa protezione offerta dalla negazione della realtà; questo significa porre il familiare in lutto di fronte alla irreversibilità della morte usando, nei colloqui, riferimenti al defunto che è morto piuttosto che scomparso e non facendo alcun uso dei tempi verbali al presente o al futuro.

Questa procedura non è da intendersi come crudele o inumana, ma delicatamente correttiva, in quanto l’operatore risponde inflessibilmente in un modo che conferma, piuttosto che smentire, la realtà della perdita totale e definitiva: egli deve rafforzare quegli elementi che impongono il graduale riconoscimento che la morte è avvenuta e, solo a questo punto, potrà avere inizio il lavoro con i familiari in lutto.

E’ possibile, infatti, che la persona riconosca che la morte è avvenuta, ma eviti di accettare che il defunto non è più lì a continuare l’interazione e confermare la sua identità.

Il tentativo di mantenere tutto come era prima, di conservare vestiti ed effetti personali possono costituire anche una fonte di conforto se il familiare, allo stesso tempo, è in grado di accettare che queste misure rappresentano una tregua temporanea rispetto al “dover cavarsela da soli”.

Se, tuttavia, egli dimostra un’accettazione del fatto che il defunto è assente e una consapevolezza della propria solitudine, queste attività possono piuttosto dimostrare il suo rifiuto di capire che la morte è definitiva e che tutto è cambiato. Continui ed esagerati sensi di colpa, associati al bisogno di chiedere scusa, possono indicare un dissesto nell’identità personale, l’incapacità di riconoscere ed accettare i propri errori e le proprie imperfezioni, ed una grave dipendenza dal defunto per quanto riguarda ogni tipo di conferma o di sostegno all’autostima.

Se la persona in lutto sembra non accettare la realtà della perdita, ciò può dipendere dal fatto che, nella relazione con il congiunto scomparso, la persona non assegnava molto valore alla propria individualità e alla propria capacità e che il suo contributo alla costruzione di una realtà condivisa era pertanto marginale.

Un indicatore che la persona in lutto comincia a mostrare la propria accettazione della perdita è dato dal fatto che essa inizia a parlarne in termini di “morte” e di “solitudine personale”: quando la perdita diventa reale in questo modo, la sofferenza dell’essere soli e del dover far fronte ad ogni nuovo giorno senza il congiunto scomparso, comincia ad essere sentita ed espressa.

L’operatore, anche in questo caso, può così intervenire:

1. Dovrebbe continuare ad incoraggiare il riconoscimento e l’accettazione del fatto che il defunto è effettivamente morto, dunque definitivamente “perduto” per l’interazione quotidiana ed il suo significato.

2. L’operatore deve essere in grado di tollerare l’espressione di dolore e di rincrescimento che questa consapevolezza comporta e mantenere un atteggiamento di interesse e disponibilità ad essere accanto al familiare in lutto. Questo può suonare come una sorta di “far niente”, ma essere in grado di esprimere un pieno atteggiamento di interesse, è una faccenda molto seria e che richiede all’operatore una notevole autoconoscenza delle proprie reazioni circa la morte, il lutto, la perdita personale nonché la sua e l’altrui mortalità. Deve essere in grado di incoraggiare una progressiva accettazione della perdita e di facilitare l’espressione di sentimenti di rincrescimento, in quanto è molto improbabile che un tale aiuto possa giungere da altre fonti. Espletate le attività per organizzare il funerale e per sostenere i familiari in lutto nel primissimo periodo, i sistemi di supporto informali tendono a lasciare il campo: la persona può perciò trovarsi abbandonata, senza un effettivo aiuto. Il compito dell’operatore sociale è dunque quello di favorire ogni opportunità per la persona di riconoscere e di accettare l’ineluttabilità della perdita, nonché di facilitare l’espressione del dolore e del rincrescimento. Ogni naturale e spontanea tentazione di dare aiuto, facendo riferimento a tempi migliori nel futuro, a discapito di far fronte al dolore nel presente, ha come unico risultato di non far progredire la persona nel lavoro sul lutto. Un operatore che facesse simili osservazioni potrebbe anche essere percepito come non affidabile, nel senso che tali espressioni lasciano trasparire il suo desiderio inconsapevole di ritirarsi dal coinvolgimento e dalla condivisione della sofferenza; egli deve perciò senz’altro riconoscere che c’è ben poco conforto nel dover far fronte al domani e ad ogni altro giorno senza il defunto. L’operatore sociale deve quindi offrire un certo senso di stabilità, di continuità, di sicurezza in un mondo che non ha più né significati, né obiettivi: è solo in questo modo che qualche senso di conforto può venir efficacemente comunicato ed accettato.

3. Il processo di accettazione della realtà della perdita e del progressivo distacco dalla persona defunta, necessita che il significato della relazione e della realtà condivisa possano essere adeguatamente ripensati e collocati in un’appropriata prospettiva storica. I familiari in lutto saranno sempre desiderosi di parlare della vita passata con il defunto, ma nel fare questo, continueranno il lavoro di conferma che queste cose sono successe nel passato prima che i loro cari morissero. Facilitare questa conversazione è possibile in diversi modi: dimostrandosi disponibile, attento, interessato e reattivo, l’operatore comunica che egli accetta volentieri che si parli di questi argomenti e che è perfettamente legittimo farlo. Ancora una volta la comunicazione di questo messaggio è importante; i parenti e gli amici possono anche essere disponibili per l’ascolto, ma il bisogno della persona in lutto di soffermarsi sulle esperienze passate e su quello che loro hanno fatto insieme al defunto può portarli a mostrare, con dei sottili indizi, di essere impazienti o imbarazzati, o di voler evitare una piena interazione con la persona in lutto.20 L’atto di far parlare la persona in lutto della sua vita passata insieme al defunto può essere facilitato con semplici accorgimenti: guardando le fotografie, riferendosi a momenti di vita familiare, mostrandosi interessati a dei ritratti o a degli ornamenti, o a hobby comuni, insomma a tutto ciò che potrà essere connesso ad esperienze e attività condivise. L’operatore non dovrebbe, dunque, dimostrare soltanto di essere aperto e disponibile ad ascoltare, ma anche a partecipare attivamente, offrendo quegli stimoli che “aiuteranno la persona in lutto a raccontare la più completa storia del defunto”.21

L’obiettivo di questa strategia di rievocazione è quello di aiutare le persone in lutto a descrivere ciò che era la loro vita prima di subire questa perdita e di rendere chiaro il confine tra questa condivisione di vita e la nuova differente situazione cui essi devono far fronte.

La conversazione, evidentemente, colloca la relazione e le esperienze con il defunto nel tempo passato e da questo tipo di conversazione si possono trarre due ulteriori vantaggi:

1. I familiari in lutto possono ricordare gli aspetti positivi e gratificanti della loro relazione con le persone ora defunte: questo può rappresentare una fonte di sostegno attuale e futura ed una conferma che qualche cosa di significativo era stato in precedenza compiuto; ciò serve anche a rafforzare i sentimenti di autostima ed a superare l’atteggiamento di ostilità e di rancore che può intaccare l’interazione con parenti e amici.

2. Se i familiari in lutto hanno vissuto una relazione ambivalente oppure problematica con il defunto, possono sentirsi arrabbiati per quello che essi percepiscono come tempo sciupato, possono avere un basso livello di autostima e biasimare se stessi per errori presunti o anche reali. Mentre è facile che qualsiasi interlocutore, anche poco esperto, possa considerare un segno “salutare” e accettare che il familiare in lutto parli del defunto in termini positivi, è probabile invece che egli possa sentirsi meno pronto ad ascoltare espressioni di rancore o biasimo verso se stessi. Egli potrà fare di tutto per evitare l’approfondimento di queste tematiche oppure potrà assumere un atteggiamento di netta chiusura nei confronti del familiare che parla male della persona defunta o che si sofferma su aspetti sconcertanti del passato. Anche per la persona in lutto è difficile esaminare gli aspetti negativi di una relazione, assieme a parenti ed amici, dal momento che questi ultimi probabilmente desiderano conservare l’immagine che essi hanno del defunto e dimenticare difficoltà o conflitti per i quali essi ritengono che non possa essere fatto niente. La paura di venir percepiti come sleali, oppure di alienarsi gli amici ed i parenti, possono essere altri motivi che impediscono al familiare in lutto di esprimere ogni tipo di risentimento verso colui che è venuto a mancare. Essendo perciò l’educatore disponibile a prestare ascolto, quando invece gli altri non lo sono, a favorire la discussione sul defunto, quando gli altri considerano ciò una cosa malsana, e ad incoraggiare l’espressione tanto dei sentimenti positivi che di quelli negativi, è probabile che la persona in lutto sia aiutata nel riconoscere ed accettare la perdita subita: i defunti non vengono dimenticati, ma collocati nel passato, anche se la loro memoria è incorporata nella realtà presente.

Una volta che la persona in lutto comincia ad accettare la realtà della perdita subita, è probabile che inizi a sperimentare l’assenza di significato e il senso di inutilità: non c’è più il conforto che può derivare dall’obnubilamento iniziale o dal persistere negli abituali modelli di interazione.

Tutti i dettagli delle attività svolte congiuntamente dal marito e dalla moglie o dai genitori e dai figli, cessano di avere significato e si deve procedere ad un radicale cambiamento nelle ordinarie attività quotidiane; questa realtà si è frantumata, il mondo è divenuto un posto infido, la conferma dell’identità personale è stata annientata e le relazioni con gli altri devono venir ristabilite partendo da una base completamente differente.

Questo può essere il periodo più difficile tanto per la persona in lutto, quanto per l’operatore: per la prima perché ha “abbandonato” il defunto e non ha niente con cui sostituire la relazione perduta o ricostruire il senso degli obiettivi; per il secondo perché ha lavorato duramente nell’incoraggiare la persona ad accettare la perdita, con il risultato di ottenere, apparentemente, solo la più acuta tristezza, talvolta disperata.

Può essere in questo momento che l’educatore si sente più inutile e più incerto rispetto a ciò che deve fare mentre, a questo punto, le cose da fare sarebbero molte:

1. Può dimostrarsi semplicemente attendibile e fidato e ciò è particolarmente importante quando è la vita stessa che viene vista come inattendibile ed instabile e quando gli amici, talvolta anche i parenti, hanno cominciato a ritirarsi o ad essere incerti sul modo di aiutare.

2. Può dimostrarsi paziente e rifiutare di interrompere il contatto o di essere sopraffatto da quella che sembra una situazione disperata.

3. Può agire, per un breve periodo, come partner nell’interazione sociale, al fine di confermare il senso di identità della persona in lutto e la sua autostima. Questo comporta accettare la legittimità di ogni sentimento espresso e accettare la persona in lutto in quanto individuo e non come facente parte di una categoria da accostare con disagio e con paura: impegnando la persona nell’interazione sociale, ricordandole continuamente che non si sta comportando in modo anormale, essa sarà in grado di ricostruire gradatamente un nuovo senso di sé, proprio nel rapportarsi all’operatore come “altro significativo”.22

L’educatore, perciò, agisce come un “ponte”, una temporanea “controfigura”, fino quando la persona in lutto non avrà guadagnato sufficiente fiducia in se stessa per aprirsi all’interazione con le altre persone; è importante, però, che egli non diventi l’unica persona sulla quale, chi è in lutto, possa contare per avere garantite stabilità e continuità nel lungo periodo e, come afferma Raphael, “il counsellor della persona in lutto ha degli scopi ben definiti: uno di questi è di non diventare un sostituto della persona che è morta.”23

Le competenze dell’educatore

La rete di familiari e amici sensibili può essere sufficiente di per sé nell’aiutare le persone colpite da lutto; tuttavia il punto cruciale è che mentre gli operatori sociali hanno la responsabilità professionale di acquisire valide conoscenze e di agire in maniera appropriata, parenti ed amici non hanno questa responsabilità.

Essi possono essere scusati per il loro imbarazzo e la loro incertezza sul modo di accostarsi alla persona colpita da lutto, per i ben intenzionati, ma inutili commenti e per l’ansietà di fronte a qualcosa che è al di sopra delle loro capacità e che li porta in genere a reprimere l’espressione di sentimenti intensi; possono sentirsi compassionevoli ed altruisti, ma privi di conoscenze, fiducia ed autoconsapevolezza, tutti attributi che invece, normalmente, ci si aspetta di trovare negli educatori professionali.

Il lavoro sociale è altruismo praticato in maniera sistematica, autoconsapevole e supportato da un esplicito mandato sociale ed è questo tipo di altruismo che differenzia il lavoro dell’educatore dall’aiuto che si può ricevere attraverso le normali reti sociali.

Quindi la relazione d’aiuto professionale può divenire più proficua se basata principalmente sull’umanità che si manifesta quando una persona, molto semplicemente, si siede assieme ad un’altra e le offre apertamente conforto e comprensione.

Questo sembra apparentemente facile, ma per essere effettivamente in grado di offrire tale conforto e comprensione, l’educatore deve sviluppare quel grado di fiducia, di consapevolezza di sé e degli altri e quella capacità di mettersi allo stesso livello di persone disperate che gli rende possibile l’accettare e il tollerare questo grande dolore.

Al contrario, darsi da fare secondo il buon senso, far apparire le cose migliori di quello che sono o prospettare un futuro più roseo, impedisce alle persone colpite dal dolore l’immediato sentimento e l’espressione di dolore, ira e frustrazione.

Molta della responsabilità professionale dell’educatore, nella sua azione d’aiuto, fa perno sull’abilità di riconoscere e rifuggire la tendenza verso l’attivismo e l’ottimismo, quando invece la situazione richiede di affrontare il dolore e accettare la disperazione.

Perciò, per coloro che svolgono un’azione di counselling, l’empatia è un’abilità necessaria e questa pratica ha due funzioni: innanzitutto il counselor deve sperimentare la condizione delle persone colpite da lutto con tutta la miriade di sentimenti che accompagna la perdita; inoltre il counselor dovrebbe comunicare la propria comprensione della condizione e i suoi relativi sentimenti alla persona in lutto.

Non si può negare che risulta abbastanza difficile ammettere che un operatore possa sperimentare la condizione di una persona in lutto perché, se anche egli ne avesse sofferto in prima persona, la sua personale perdita non lo renderebbe necessariamente abile a sentire esattamente ciò che un altro sta sentendo.

Quindi la sfida per l’educatore sta nell’abilità di essere “vicino” alla persona colpita da lutto attraverso un’espressione di interesse e di comprensione: egli può sentire per e con l’altro, ma non può vivere l’esperienza dell’altro.

A questo punto, è possibile sintetizzare le componenti pratiche e teoriche del contributo degli educatori:

1) Necessitano di conoscere rispetto a:

ricerche empiricheconcernenti le reazioni della persona colpita da lutto e la specifica vulnerabilità di particolari gruppi di utenti;

l’interpretazione dei datiche fornisce l’intelaiatura teorica per dare significato alle informazioni raccolte;

il contesto organizzativo dell’interventoed i problemi di status, potere, responsabilità nella presa di decisioni, standard organizzativi e politica dei servizi;

le modalità di presentazione del sé, l’esperienza professionale e personale, gli atteggiamenti verso la morte e il significato spirituale del morire e del lutto.

2) Devono individuare l’oggetto del loro intervento in riferimento a:

l’individuo: il colpito da lutto;

il gruppo: il colpito da lutto, la famiglia, le reti sociale, le risorse comunitarie;

la collettività: l’intervento indiretto attraverso il cambiamento di atteggiamenti e l’intervento di sensibilizzazione sulla morte ed il lutto;

altri operatori professionali: il personale medico dell’ospedale e della comunità, il Servizio Sanitario, gli operatori sociali;

l’organizzazione: i processi decisionali e programmatori.

3) Devono agire in modo da essere percepiti come:

sicuri: non evitare la disperazione o minimizzare il dolore dell’altro;

attendibili: non ritirarsi, non assumere un atteggiamento giudicante o direttivo, ritornare se lo hanno promesso;

fidati: non mostrarsi allarmati, imbarazzati o incerti;

interessati: essere disponibili, attenti, pronti nelle risposte;

comprensivi: tentare di cogliere il significato di questa situazione e delle esperienze dell’individuo interessato.

4) Devono essere in grado di:

comunicarein modo verbale e non verbale con le persone e con i colleghi;

analizzare, scomporre un problema in elementi identificabili e trattabili;

consentirelo sfogo dei sentimenti senza timore di perdere il controllo;

accettarela collera, il dolore, la disperazione senza tentare di evitarli, minimizzarli, giudicarli;

spiegarele percezioni dell’utente, i bisogni e i sentimenti verso gli altri;

chiarificarei processi di interazione tra gli utenti e gli altri;

incoraggiarel’accettazione della perdita, l’intraprendere nuove relazioni, lo sviluppo del controllo e dell’autostima;

staccare il rapporto, porre obiettivi, accettare fonti alternative d’aiuto, accettare l’indipendenza, terminare il contatto.

Tutte queste abilità richiedono più in generale che l’operatore faccia grande attenzione ai problemi di significato, di interazione sociale ed al modo con cui la realtà viene percepita, costruita e confermata da sé e dagli altri.

L’elenco delle cose che un educatore dovrebbe conoscere ed attuare sembra enorme; è comunque del tutto simile ad ogni altro elenco di competenze e di abilità pratiche necessarie in altre aree di intervento sociale.

Lavorare con le persone colpite da lutto non richiede una particolare o “nuova” tecnica di lavoro, ma semplicemente è sufficiente che l’educatore sia preparato a far fronte ad alcuni fondamentali problemi circa la morte ed il lutto ed a ricercarne le conoscenze appropriate. 24

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1 SCIORTINO A., “Come e perché elaborare il dolore”, in Famiglia Oggi, Cuneo, San Paolo Editore, 1995, 2, p.3

2 ALESSI A., Strappi di vita, Pavia, Bonomi, 1999, pp.101-103

3 Ivi, p.105

4 TAMARO S., Va’ dove ti porta il cuore, Baldini e Castoldi, Milano, 1994, p.15

5 ALESSI A., Strappi di vita,…, p.109

6 Ivi, pp. 110-112

7 Ibidem

8 Ivi, pp.113-114

9 RANDO T. A., Treatment of complicated mourning, Champaign, IL, Research Press, 1993, p.154

10 LINDEMAN E., “Symptomatology and management of acute grief” in American Journal of Psychiatry, 1944, 101, p. 141

11 MARRIS P., Loss and ch’ange, Londra, Routledge & Kegan Paul, 1974, p.202

12 PARKES C.M., cit. in SMITH C.R., Vicino alla morte, Trento, Centro Studi Erickson, 1992, p.39

13 PANGRAZZI A., Il lutto: un viaggio dentro la vita, Torino, Edizioni Camilliane, 1991, pp.41-12

14 PARKES C.M., Bereavement: studies of grief in adult life, Londra, Tavistock, 1972, p. 68

15 LINDEMAN E., “Symptomatology and management of acute grief” in American Journal of…, p.164

16 VOLKAN V.D., cit. in SMITH C.R., Vicino alla morte, Trento, Centro Studi Erickson, 1992, p.44

17 HOROWITZ M.J., WILNER N., MARMAR C. & KRUPNICK J., “Patological grief and the activation of latent self-image”, in American Journal of Psychiatry , 1945, 137, p.1160

18 RANDO T.A., Treatment of complicated mourning, Champaign, IL, Research Press, 1993, p.136

19 RAPHAEL B., A psychiatric model for bereavement counselling,, 1980, p.153

20 SMITH C.R., Vicino alla morte, Trento, Centro Studi Erickson, 1990, pp.114-118

21 CORAZZINI J.G., “The theory and practice of loss therapy”, in SCHOENBERG B., Bereavement Counselling, Londra, Greenwood Press, 1980, p.77

22 SMITH C.R., Vicino alla morte, Trento, Centro Studi Erickson, 1990, pp.119-121

23 RAPHAEL B., A psychiatric model for bereavement…, p.161

24 SMITH C.R., Vicino alla morte,…pp. 129-132

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